La rete è come la piazza di Atene, dove discutevano della POLIS, ma dove non si decidevano le leggi, solo nell’agorà si discuteva dei problemi della polis e i demos trasformavano le loro decisioni in legge.
VACLAV BELOHRADSKY
Breve definizioni della parola egemonia su cui si fonda la politica.
Con il termine egemonia indico semplicemente il fatto che l’esercizio del potere deve essere inquadrato nel contesto di ciò che la gente considera “normale” o “naturale”, “dettato dal senso comune” o “ispirato ai valori universali”; l’egemonia politica è questo quadro di normalità dell’esercizio del potere politico.
Esso verte sul fatto che una classe dirigente, un’elite o un gruppo dirigente ed i suoi alleati riesce a presentare i propri interessi come rappresentativi di tutta la società.
Con i concetti e i valori egemonici, con ciò che la gente considera “normale” ci scontriamo molto spesso ed in un’infinità di modi, anche se partecipiamo solo raramente alle competizioni per il potere politico nelle sue forme istituzionali.
Il tratto caratteristico delle egemonie politiche è appunto il fatto che esse si reggono sulle parole che non vengono percepite come politiche, sulle parole come bene, bellezza, verità, giustizia, igiene, la cura del corpo, le feste ecc.
Chi vuole sfidare un’egemonia politica, politicizza anzitutto queste parole neutrali, mostra ad esempio che il nostro rapporto con il proprio corpo non è mai impolitico, ma imposto da una lunga egemonia politica, che il concetto di bene o di verità sono asserviti ai punti di vista e agli interessi delle classi dominanti.
Il potere politico egemonico dunque controlla il confine tra quello che deve essere considerato come non politico, soprapolitico, normale, morale, naturale, oggettivo, bello ecc. e quello che invece deve essere considerato come politico.
Il punto di vista egemonico trasforma facilmente l’opposizione in malattia mentale, l’atto di protesta in crimine, l’anticonformismo in offesa del come senso di pudore, i valori minoritari in peccato, la critica in tradimento, la previsione razionale in minaccia intollerabile per lo sviluppo della società.
E’ stato Gramsci a dare alla parola egemonia un senso specifico di “capacità di direzione della società” fondata sulla convinzione delle masse che i valori difesi da un gruppo egemonico sono valori universali.
Il potere politico assieme a tutte le altre forme di potere e d’autorità nella società deve essere sempre sostenuto, per essere efficace, da un’egemonia.
Naturalmente vi possono essere dei poteri senza egemonia – dittature o regimi imposti dall’occupante,o egemonie senza potere, ad esempio la presunta egemonia culturale dei comunisti in Italia negli anni Sessanta e Settanta.
Nella lunga durata comunque prevale il potere che rappresenta una reale egemonia di un blocco storico di interessi.
Le egemonie si svuotano quando cessano di essere attuali.
Ora la parola attualità è oggi banalizzata, significa “notizia del giorno”. In realtà questa è una delle parole fondative della civiltà occidentale, indica infatti la forza che rende il futuro molto diverso dal passato.
Il modello di questa visione del tempo è il vangelo – la buona novella, la rivelazione che il futuro degli uomini sarà diverso dal passato, nuovo.
Oggi non è la rivelazione, ma la tecnoscienza a rendere il futuro
radicalmente diverso dal passato costringendo la società nel suo insieme ad adattarsi a ritmi e possibilità nuove.
Ogni egemonia è legata all’attualità, alla capacità dei gruppi dirigenti di far fronte all’attualità nel senso di controllare o governare quel fattore che di volta in volta rende il futuro radicalmente diverso dal passato, pensiamo ad esempio alla new economy promossa da Internet o alle biotecnologie.
Diventa “portatore di un’egemonia alternativa” quel gruppo che riesce a rappresentare l’attualità, a convincere gli elettori di saper governare la minacciosa differenza tra il passato e il futuro che costringe la maggioranza dei cittadini a ridefinire i loro progetti di vita.
La soluzione politica: includere gli stranieri culturali nella comunità dei cittadini
Questa definizione politicizzata del conflitto, che è in contraddizione profonda con il quadro storico ed istituzionale della situazione, pretende che l’identità più inclusiva ed universalistica in Europa, quella cattolica, serva per puntellare un’identità deficitaria, poco universalistica, e in ogni caso molto meno inclusiva di quella cattolica, l’identità nazionale italiana.
Il Cristianesimo, nella sua versione cattolica, non coincide con il potere di nessuno Stato, con nessuna identità nazionale, an initio aspira ad includere tutti coloro che “credono nel Dio deicristiani”; l’identità nazionale italiana è un fatto politico, strettamente limitato dall’appartenenza, in qualità di cittadino, ad uno Stato e ad una competenza linguistica.
L’integrazione effettiva delle masse multireligiose di immigrati nello Stato italiano e nella cultura nazionale italiana, è possibile solamente a condizione che l’identità nazionale non venga definita né etnicamente né religiosamente, ma in riferimento alla Costituzione.
Definire politicamente l’identità italiana significa in primo luogo prendere a suo fondamento il rispetto condiviso della Costituzione. In secondo luogo, tutti i cittadini debbono avere l’accesso effettivo ad uno spazio pubblico determinato linguisticamente, condividere una cultura civica e avere una competenza civilizzazionale.
Gian Enrico Rusconi (La Stampa 1/11/2003) commenta questo conflitto distorto sostenendo che la stragrande maggioranza di politici italiani si dichiara esplicitamente cristiana “preoccupandosi di precisare che non si tratta di una dichiarazione di fede in senso dottrinario, ma
di un’identità storica, di un’appartenenza nazionale…(invece) avrebbero dovuto protestare contro un uso etno-nazionale della religione, avrebbero dovuto dire chiaramente che nella questione del Crocifisso in un’aula della scuola pubblica non sono in gioco né l’identità nazionale né l’ultimo baluardo contro l’incombente invasione dell’Islam”.
Il fatto che invece sono in gioco, è un fatto centrale di questo campo politico distorto.
Giovanni Sartori, pone la questione del rapporto tra l’universalismo democratico e le politiche d’integrazione degli “stranieri culturali” immigrati in questi termini: “la domanda è: fino a che punto una tolleranza pluralistica si deve piegare non solo a stranieri culturali ma anche ad aperti e aggressivi nemici culturali? Insomma, può il pluralismo accettare la propria frantumazione, la rottura della comunità pluralistica? (1997,492).
La comunità pluralistica è caratterizzata dal fatto che le linee divisorie tra i gruppi sonomultiple, basate su associazioni volontarie che non coincidono con le divisioni razziali, regionali,religiose o sociali.
Laddove invece coincidono, e dove questa coincidenza è elevata a fonte suprema di legittimità del potere politico, vengono a mancare le basi di una coesistenza pacifica tra i “diversi”, le linee di divisione si irrigidiscono e tutta la comunità pluralistica crolla.
La convivenza pacifica è impossibile nelle comunità chiuse che impongono di sommare le linee di divisione (chi è cinese in Indonesia deve essere cattolico, chi è irlandese in Irlanda deve essere cattolico, chi è bianco deve essere protestante, chi è italiano deve essere cattolico, chi è Padano deve parlare il dialetto ecc.).
La trasformazione dell’EU da un’alleanza stabile di Stati nazionali in una res publica, fondata su una Costituzione europea e su una cittadinanza europea garantita da una legalità cogente e universalistica, è la precondizione della capacità dei paesi europei di integrare gli extracomunitari”.